La morte di una bambina di dieci anni a Palermo ha portato nuovamente alla ribalta il dibattito sul rapporto tra minori e rete. Connessa ad una sfida vista su TikTok che consisterebbe nell’auto-infliggersi il soffocamento (la chiamano blackout challenge), anche se l’ipotesi finora non trova alcun riscontro, la tragedia dà da pensare. Il Garante per la protezione dei dati personali si è mosso all’istante per verificare le regole di accesso alle piattaforme per minori. Già a dicembre era stato avviato un processo nei confronti del social TikTok, proprio per contestare le impostazioni predefinite non rispettose della privacy.
Molto amato dalla fascia d’età che arriva fino alla prima adolescenza, il social in questione è un fenomeno emergente di questi anni. Brevi video, all’inizio erano solamente balli e canzoni da mimare, poi, a poco a poco balli e canti sono stati affiancati da un florilegio di contenuti. Dare una risposta alle problematiche che un’espansione tale pone non è facile, infatti vi si intrecciano etica, responsabilità dei genitori, educazione e vissuti individuali.
Il fenomeno delle “challenge”
Le “challenge” in rete sono finite sul banco degli imputati. “Eviterei di cercare nessi causali dove probabilmente non ce ne sono” ammonisce Federico Boni, ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi alla Statale di Milano. “Il fenomeno Blue Whale di qualche anno fa è stato smontato da analisi più approfondite. Qualcosa di simile accadde negli anni Ottanta e Novanta con la demonizzazione dei videogiochi, che, secondo i detrattori, avrebbero portato i minori alla violenza. Peccato che i reati, in realtà, siano diminuiti costantemente negli ultimi anni”. Qualcuno ne parla come di un problema di leggi, alcune delle quali non sono mai riuscite a rimanere al passo con l’evoluzione della tecnologia. Peraltro, in un web estremamente frammentato, arrivare a delle conclusioni concrete non è semplice e il rischio di generalizzare induce il legislatore alla prudenza. Invocare i tribunali, infatti, serve a poco. “Il reato che si chiede a più voci di contestare è quello di istigazione al suicidio, contemplato all’articolo 580 del codice penale. Ma si tratta di una norma ispirata da altro, applicata, ad esempio nel caso si favorisca l’eutanasia. Personalmente, non l’ho mai vista applicata alle sfide online”, afferma Marisa Marraffino, avvocato esperta di reati informatici. “Sul ruolo dei genitori, altro tema di cui si discute in questi giorni, una sentenza esiste già, ed è chiara: impone di installare un parental control sui cellulari dei ragazzi in età adolescenziale o preadolescenziale”. Dello stesso parere Giuseppe Vaciago, consulente legale di Chi odia paga, una startup che si occupa di combattere l’odio in rete: “Il delitto di istigazione si verifica quando vi è dolo, ossia la coscienza e volontà di determinare l’altrui suicidio. Non è punita l’istigazione colposa. Pensiamo veramente che vi sia tale volontà da parte della piattaforma, dei genitori o di chi ha postato la presunta challenge? Se sì, e se fosse dimostrato, ci troveremmo di fronte a un reato. In caso contrario, il problema si può risolvere solo attraverso una regolamentazione chiara dell’uso di questi strumenti”. In gioco c’è un concetto fondante del web: la libertà. “Stiamo avvicinandoci all’uso del documento di identità per accedere alla Rete? Personalmente spero di no. Ma, se così fosse, almeno si tratterebbe di una risposta concreta a un problema emergente. Diversamente, se non esistono leggi in materia, a mio avviso non possiamo parlare di reati”.
Il ruolo della famiglia
Possono entità statali sciogliere un nodo che alberga nel quotidiano di ogni famiglia? Su questa domanda riflette Giuseppe Pozzi, psicoterapeuta: “La questione delle challenge su TiktTok e altri social credo sia legata a una sorta di almeno qualcuno si occupa di me. C’è una grande differenza tra essere riconosciuti e sentirsi amati. E, contrariamente a quanto si crede, i bambini, più che di amore, hanno bisogno proprio di riconoscimento”. Le challenge anche più semplici possono rappresentare l’adesione a una comunità, seppur virtuale. “L’incontro con l’altro continua a essere fondamentale per i ragazzi, ma oggi è sempre più evanescente. Come nelle classi di trenta bambini, dove è impossibile per il docente instaurare una relazione con tutti. Il dialogo permette di sublimare, in termini freudiani, la pulsione di morte. Violenza contro sé stessi o contro l’altro non fa poi molta differenza. Per questo il bambino si lascia sedurre dalla sfida: perché, almeno in quella, trova un battito di vitalità, un esserci”, afferma l’esperto.
Il ruolo della stampa e delle piattaforme
Attorno al 1978, quando fu conclusa la metropolitana di Vienna, si registrò un aumento improvviso del numero di suicidi. La copertura dei giornali e i toni drammatici utilizzati per descrivere il fenomeno spinsero i ricercatori a chiedersi se l’attenzione mediatica potesse essere un fattore in più nella decisione di farla finita. Dopo qualche anno furono pubblicate alcune linee guida per i mezzi di comunicazione: tra le altre, evitare di parlare di suicidi nel titolo, non dare dettagli, non proporre questa tipologia di notizie con frequenza e risalto eccessivi. Il risultato fu confortante: le vittime calarono, e da allora il dato è rimasto costante. Se delicato è il ruolo della stampa, altrettanto lo è quello delle piattaforme: filtri automatici e policy non sono sempre sufficienti.
Forse, nel cocktail dei tanti rimedi proposti, uno importante è proprio quello di tornare alle radici della parola community intesa come gruppo che si autocostruisce attorno a regole condivise. Un controllo diffuso consentirebbe di intercettare i casi di violazioni palesi che sfuggono alla moderazione e potrebbe essere l’elemento chiave per le campagne di comunicazione mirate ai ragazzi. Una disamina ampia serve soprattutto per sgombrare il campo dalle mistificazioni. Di certo, la Rete non sarà mai un Eden, tuttavia le norme al passo coi tempi, le relazioni familiari, il senso della comunità e, ovviamente, gli strumenti tecnologici possono essere fonte essenziale per rendere il web un posto migliore senza perdere per strada la libertà: ideale, che alla fine dei conti, è la sua ragion d’essere.
Costanza Falco
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