La popolazione mondiale del 21^ secolo sta affrontando problemi sociali complessi, mai affrontati prima, o almeno non così approfonditamente e non con queste modalità. Con l’avvento dei social network ognuno può dire la sua ed esprimere un’opinione su qualunque argomento. Una democratizzazione globale che ha sicuramente i suoi pregi, ma anche (e forse soprattutto) i suoi difetti. Tutti hanno il diritto di parola e di opinione, ma non sempre è necessario esercitarlo; i social hanno creato un fenomeno di partecipazione esasperato, in cui si sente il bisogno di commentare ogni notizia o post, per dimostrare che esistiamo e abbiamo anche noi le nostre idee.
L’effetto però rischia di essere quello opposto: commentare per avere l’approvazione degli altri utenti, cioè scrivere il pensiero più buonista e stereotipato possibile solo per rispettare i canoni della società in cui si vive o, nel peggiore dei casi, per avere i like della community. Ecco che allora l’indignazione diventa l’arma più potente di Internet. Chi non rispetta il pensiero comune viene attaccato, socialmente demolito, condannato senza possibilità d’appello. In questo scenario, denominato “cancel culture” nasce la “Harper’sLetter”.
Il caso
Negli Stati Uniti da qualche giorno è in corso un dibattito causato da una lettera aperta pubblicata da molti famosi scrittori, giornalisti, accademici e attivisti sulla rivista Harper’s per criticare la cosiddetta “cancel culture”. È un’espressione ormai diffusa negli Stati Uniti, che indica la tendenza – accentuatasi molto negli ultimi anni sui social network, soprattutto nelle persone di sinistra, nei giovani e tra gli attivisti anti-razzisti – ad attaccare collettivamente persone famose di cui emergono comportamenti, idee o dichiarazioni ritenute sbagliate e offensive, indipendentemente dall’entità e dal fatto che siano attuali o molto antiche, chiedendo punizioni immediate come il loro licenziamento o boicottaggio.
Chi sono i firmatari
I firmatari della lettera sono oltre 150, e comprendono scrittori come Martin Amis, J.K. Rowling, Margaret Atwood e Salman Rushdie, giornalisti e opinionisti come David Brooks, Anne Applebaum e George Packer, accademici come Noam Chomsky e Francis Fukuyama, la storica attivista femminista Gloria Steinem e personaggi provenienti da altri ambienti, come lo scacchista Garry Kasparov e il jazzista Wynton Marsalis.Il dibattito nato intorno alla lettera non è nuovo: anche se è diventato sempre più frequente e centrale nella cultura statunitense negli ultimi anni, esiste da molto prima che i social network ne diventassero parte integrante, trasformando il modo in cui le persone – e spesso anche gli intellettuali – esprimono le loro opinioni e soprattutto rispondono alle opinioni altrui.
A voler sintetizzare tantissimo una cosa lunga e complessa, i firmatari della lettera sostengono che la nuova sensibilità collettiva su quali parole, comportamenti e idee siano offensive e più o meno esplicitamente razziste, sessiste e in generale discriminatorie abbia avuto molti effetti positivi, ma anche altri che non fanno bene alla salute del dibattito pubblico. Essenzialmente, un conformismo delle idee che porta le persone che di lavoro scrivono, dirigono film o fanno arte ad adeguarsi a questo presunto pensiero collettivo: il rischio di essere “cancellati”, cioè licenziati, oppure boicottati in massa, se dicono qualcosa di non allineato è diventato troppo alto, sostengono i firmatari della lettera. E riguarda anche i casi di cose dette o fatte in passato, anche quando all’epoca era considerato culturalmente e socialmente più accettabile di oggi.
Le critiche alla lettera
Sono in tanti però a non essere d’accordo con la lettera. L’obiezione principale che viene mossa alle posizioni espresse dai firmatari è che si ergano a difensori della libertà di espressione quando in realtà vogliono mantenere una forma radicata e subdola di potere, che esclude le minoranze. Non a caso, dice spesso chi sostiene questa posizione, chi si lamenta del restringimento dei confini della libertà di espressione è soprattutto «maschio, bianco e anziano»: un’espressione ormai usatissima online per identificare una categoria che ha sempre occupato una posizione privilegiata nella cultura occidentale, e che adesso – dicono – si sente minacciata.Quest’obiezione, almeno nel caso della lettera, è comunque meno pertinente, visto che ci sono molte donne, giovani, persone non bianche e non eterosessuali.
Temi delicati
Tra i firmatari, diversi hanno poi detto pubblicamente di essersi pentiti di aver aderito, dopo aver scoperto i nomi di alcuni altri sostenitori che non stimano. Malcolm Gladwell, giornalista del New Yorker, ha obiettato che essere insieme a gente con cui è in disaccordo era proprio il senso della lettera. I temi di cui parla la lettera sono strettamente collegati alla questione delle rivendicazioni identitarie di categorie di persone accomunate da un passato di discriminazioni e soprusi.
Le donne, gli afroamericani, le persone omosessuali, quelle transgender, fino ad altre categorie che sono entrate nel dibattito da meno tempo, come le persone non binarie o quelle la cui immigrazione negli Stati Uniti è stata più recente, come gli asiatici. Categorie che, in misura diversa, sono state a lungo escluse dalle posizioni di potere, anche nella cultura e nell’esposizione delle loro storie e opinioni, e che adesso rivendicano spazi e attenzioni che ancora mancano.
È un’altra obiezione che viene fatta spesso a chi sostiene le posizioni dei firmatari della lettera: nonostante tutto, queste categorie e queste minoranze hanno ancora scarso accesso alle posizioni di potere e prestigio. Cosa che rende ancora meno credibili le lamentele sul restringimento dei confini della libertà di espressione, da parte di scrittori affermati ed editorialisti dei principali giornali americani. La diffusione e le attenzioni riservate alla lettera di Harper’s ne sarebbero una dimostrazione. Il problema, secondo questo punto di vista, è che chi ha finora potuto sostenere senza obiezioni le proprie opinioni adesso non tollera che ci siano sempre più persone che le criticano pubblicamente.
Conclusioni
Da queste due correnti è nato un altro filone di opinioni sulla lettera di Harper’s, più sfumato e di compromesso. I firmatari, hanno scritto diversi commentatori, hanno argomenti giusti e condivisibili, specialmente sulla tendenza sempre più marcata a reagire con gogne pubbliche a quelle che nascono in realtà come opinioni pacifiche e benintenzionate, magari espresse male. Ma, hanno scritto in tanti, la minaccia rappresentata dalla “cancel culture” è secondaria rispetto ai problemi concreti e quotidiani causati a tantissime persone dal razzismo sistemico, dal sessismo, dall’omofobia o dalla transfobia.
Il punto è chiarire i confini della libertà di espressione: è giusto che un personaggio pubblico si senta costretto all’autocensura per evitare di dire la cosa sbagliata e dover affrontare la gogna pubblica? E che quindi si debba per forza uniformare al “pensiero benpensante” del momento? Problemi sociali come razzismo, sessismo, omofobia e molte altre ancora hanno senza dubbio la priorità e vanno debellate il prima possibile. È importante però che ci si renda conto che non c’è un modo solo per farlo, e che combattere per un ideale non giustifichi qualsiasi frase o azione. Esistono critiche costruttive, pensieri “out of the box” comunque utili alla causa. Ergersi come paladini del perbenismo non gioverà niente e nessuno. Dovremo essere bravi a imparare ad ascoltare e comprendere l’altro, piuttosto che a dire la nostra a tutti i costi e condannare. Verso uno stesso nobile proposito.
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