È sempre più in crescita il movimento dei fixers, cioè coloro che decidono di riparare da soli o vendere i propri device elettronici invece che buttarli. Questa scelta è sia economica, perché si risparmia, sia ecologica, perché si riduce l’impatto ambientale. Inoltre, aiuta i tecnici locali invece delle big tech, accusate di trascurare consumatori e ambiente con politiche che vanno dal design monoscocca all’obsolescenza programmata. Ecco perché il fai-da-te elettronico potrebbe diventare cool.
Un problema di vecchia data
Il mercato domestico, negli ultimi anni, si era assestato sull’usa e getta e sembrava impossibile tornare indietro. Invece qualcosa si è mosso. Fino a poco tempo fa la discarica sarebbe stata la prima opzione, ma assieme al nuovo millennio è cominciata un’epoca diversa: con il dispositivo venduto a prezzi stracciati, il business si è spostato su consumabili (ad esempio le cartucce) e ricambi: o ripari da noi, costi quel che costi, o lo butti. Difficile stabilire chi abbia innescato il meccanismo; se siano stati, cioè, gli uffici marketing ad addomesticare il pubblico per scelta strategica incentivando il consumismo tecnologico, o, invece, le aziende abbiano risposto a una fase di allargamento del mercato proponendo linee di prodotti entry level che, a fronte di costi contenuti, non garantivano affidabilità. Ora, anche all’interno della stessa azienda le macchine più costose mostrano una qualità costruttiva differente che le porta a soffrire meno di una serie di problematiche legate all’utilizzo e quindi si rompono meno.
Impatto ambientale
“Prendiamo gli smartphone: l’intero ciclo vita dei cellulari venduti in Europa è causa di 14 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica ogni anno. La durata media della vita di un telefonino in Europa è di tre anni, e ogni 12 mesi sul territorio ne vengono venduti quasi 211 milioni”. A parlare è Ugo Vallauri, italiano residente a Londra da molti anni. Vallauri è attivista e fondatore di The Restart Project, tramite cui organizza eventi di riparazione collettiva, dove, tra bulloni e cacciaviti, l’aspetto della socializzazione è interessante tanto quanto quello ambientale. “Allungare la durata media dei cellulari anche solo di un anno consentirebbe di risparmiare più di due milioni di tonnellate di emissioni, equivalenti a togliere dalle strade europee circa un milione di auto”, prosegue Vallauri sciorinando dati. “Oltre il 70% dell’impatto ambientale di uno smartphone si ha prima che il telefono sia mai stato acceso, durante la fase di produzione. Allungarne la vita rendendolo più riparabile è il modo migliore per ridurre l’effetto”. Il network messo in piedi dall’italiano ha ben presto superato da tempo la Manica: se le restrizioni legate al Covid hanno spostato online l’attività nel Regno Unito, durante l’estate qualcosa si è mosso nel Belpaese, con eventi che hanno toccato Firenze, Aosta e Perugia. Ai tavoli, per spiegare il funzionamento dei device elettronici e provare ad aggiustarli, tecnici e appassionati. Ad Aosta hanno partecipato persino i bambini, accompagnati da genitori interessati al tema.
Storia dei fixers
Le batterie dei primi iPod, protagonisti del rilancio di Apple, duravano circa 300 cicli di ricarica; nel 2003, la scoperta portò il regista Casey Neistat a riempire New York di graffiti di protesta e a girare un video che divenne virale, con milioni di visualizzazioni in pochi giorni. Risultato? Di lì a poco Apple, cedendo alle pressioni, cambiò la propria policy. Il potere delle web: era nata la prima, embrionale, community di fixer. Mancava ancora l’organizzazione, ma era questione di pochi mesi. La possibilità di scambiarsi opinioni, pareri e consigli di riparazione offerta dalla Rete fece sì che rapidamente cominciassero a formarsi i primi gruppi di non specialisti interessati all’argomento. Chi trovava il modo di aprire un dispositivo e sistemarlo viveva un’emozione quasi carbonara, simile a quella dei cospiratori ottocenteschi. Nel 2003 nacque Ifixit, primo sito a raccogliere manuali e procedure per riparare da sé i propri device: schemi elettrici e istruzioni erano spesso gelosamente custoditi dalle case madri. Kyle Wiens e Luke Souls frequentavano l’università quando, nel dormitorio, provano a riparare un vecchio iBook. “Lo abbiamo smontato completamente alla cieca”, racconta Wiens. “La prima volta è stato un disastro, estremamente difficile, anche se, alla fine, ci siamo riusciti. Se non altro, dalla seconda in avanti ha cominciato a essere più facile”. I due ventenni decidono di avviare un’attività in proprio comprando vecchi pc rotti su eBay per ottenere le parti di ricambio necessarie alla riparazione. Ma, soprattutto, cominciano a condividere sul web una serie di schede in cui descrivono in dettaglio le procedure seguite, consentendo a chiunque di contribuire. Oggi su Ifixit sono disponibili 30mila manuali di riparazione e 95mila soluzioni per oltre 7.400 prodotti, dai cellulari ai televisori. Il progetto, spiega Wiens, si autosostiene vendendo cacciaviti e kit di riparazione di base. Wiens ha una propria teoria sull’obsolescenza programmata. “Esiste, ma non è esattamente quello che la gente pensa. Faccio un esempio: se rimuovi il jack audio da un dispositivo, stai di fatto rendendo obsoleti centinaia di milioni di device esistenti, e forzi gli utenti a muoversi verso una tecnologia che francamente non è ancora pronta… non abbiamo ancora auricolari wireless di lunga durata e sostenibili. Se sei leader di mercato, sai che prima o poi tutti ti seguiranno: per questo hai maggiori responsabilità”. Fortunatamente ci sono marchi che hanno una politica differente: “Dell, Lenovo, HP rendono disponibili manuali e ricambi; ma anche un trapano Bosch è abbastanza facile da riparare, se ti si rompe il motore”.
Norme UE in arrivo
Con la questione ambientale sempre più sotto i riflettori e la Cina che ha smesso di accettare molte tipologie di rifiuti dal 2017, l’Unione Europea si è vista costretta a intraprendere iniziative a lungo rimandate. A partire dal 2021, una serie di prodotti (tv, monitors, frigoriferi, lavastoviglie, illuminazione) dovranno soddisfare requisiti minimi di riparabilità per essere venduti. “Ma non è abbastanza: nel testo manca, sostanzialmente, tutto il comparto elettronico”, dice Vallauri. Che rilancia con una proposta: “Perché non corredare i prodotti con un indice di riparabilità? Oggi come oggi il consumatore non sa nulla al riguardo, quando preleva un dispositivo dallo scaffale: tenendo conto di questa dimensione, la sua scelta sarà più consapevole”. Facile immaginare che l’idea non piacerà a molti. Qualche paese ha provato a fare qualche passo in avanti in autonomia: il sito Repair.eu annuncia che in Austria la coalizione di governo ha acconsentito ad abbassare l’va sulle piccole riparazioni di bici, vestiti e scarpe portandola dal 20% al 10%, per renderle più appetibili. In alcuni lander del paese, inoltre, sarebbe stato un successo il bonus che rimborsava il 50% delle spese di riparazione fino a 100 euro.
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