Il 19 giugno è uscito il secondo capitolo della saga di “The Last of Us”, videogioco action-adventure ambientato durante un’apocalisse zombie e riconosciuto dalla critica mondiale come uno dei videogame migliori di tutti i tempi. Era chiaro che l’hype fosse alle stelle per tutti gli amanti del gioco e le attese non sono state tradite. The Last of Us 2 ha entusiasmato anche superando le più rosee aspettative. In Italia si è preso subito la vetta delle classifiche diventando il titolo più venduto e la Sony, produttrice della Play Station, lo ha definito il gioco PS-exclusive (è infatti disponibile solo per questa consolle) con più successo della storia. Il capolavoro di Naughty Dog ha infatti registrato oltre 4 milioni di copie vendute soltanto nella prima settimana.
Un gioco che va oltre la “solita” apocalisse zombie
Chi pensa che “The Last of Us” sia un clichè del genere commette un errore. La trama è che nel mondo in cui è ambientato scoppia una pandemia. Un fungo che nel mondo reale attacca gli insetti, un particolare tipo di Cordyceps, muta e infetta l’uomo. Il risultato è un’apocalisse simile a quelle degli zombi, che colpisce gli affetti, le famiglie, i paesi, le città, le nazioni e le società, secondo un copione che conosciamo bene anche da prima di questa terrificante versione blanda che stiamo vivendo nel 2020. Già nel primo capitolo del gioco uscito nel 2013 la storia è profonda, molto più di uccidere i morti viventi e scappare. Era la narrazione di Joel ed Ellie, un uomo e una ragazzina che si sceglievano a vicenda nel mondo spietato e assassino in cui si erano trovati d’improvviso.
Era un gioco sull’amore in senso esistenziale, come strumento per rispondere alla vita, come unico appiglio, come capsula protettiva in un ambiente diventato solo sopravvivenza, paura e morte. Il mondo era cambiato da poco. Le persone erano ancora sconvolte, cercavano di farsi forza e proteggersi a vicenda. Mentre intorno a loro c’era un inferno indistinto. Ma alle cose, anche alle più terribili, dopo un po’ ci si abitua. E in genere si trova anche il modo di rendere l’inferno un posto quasi sopportabile. Il secondo capitolo si arricchisce ancora di più se possibile.
La trama (senza spoiler)
The Last of Us 2 è ambientato qualche anno dopo. Adesso Ellie è una ragazza quasi ventenne, omosessuale, che vive in uno degli accampamenti che le persone sane hanno costruito per difendersi dagli infetti e dagli altri sani, organizzati in gruppi e clan tribali sorti spontaneamente. È dura, ma si vive. E non si è più soli contro il mondo. È tornata a esistere, insomma, in un qualche modo emergenziale ma più o meno stabile, una forma di società. E da questo contesto scaturisce – niente spoiler, state tranquilli – l’odio che è protagonista di questo gioco. Nei panni di Ellie, carica di odio e sete di vendetta, attraversiamo insieme alla nostra ragazza un mondo reietto, abbandonato, dove le città sono rovine coperte di vegetazione e occupate dagli animali. Non sono solo gli infetti ad attentare alle nostre vite, ma anche molti sani diversi da noi.
Un gioco estremamente narrativo, di ampio respiro, tanto simile a un film che prevede la recitazione digitalizzata di attori. Accanto all’esplorazione, nel fitto delle foreste, sui corsi d’acqua, tra gli edifici abbandonati, c’è una moltitudine di generi e toni, sfumature e sottotesti che fanno di The Last of Us 2 qualcosa di inedito. Nell’arco delle trenta ore abbondanti necessarie per completare il gioco, si passa dall’azione pura alla riflessione filosofica, da momenti di terrore che ricordano un survival horror a passaggi di totale immersione nella natura e nell’introspezione psicologica.
Con il plus rispetto a un qualunque film di essere tu stesso a compiere quelle azioni, in una sorta di immedesimazione nei panni della protagonista. Ellie in questo capitolo è violenta, è pronta a tutto, e non si può fare a meno di amarla anche mentre fa cose terribili per noi e per lei. È Tony Soprano, insomma, Walter White di Breaking Bad: un personaggio complesso, capace di fare molto male. E con cui empatizziamo anche mentre riconosciamo ogni suo errore, facendosi coinvolgere a pieno nella storia.
La completezza e la profondità, a testimonianza del capolavoro
The Last of Us 2 tiene insieme anche la varietà identitaria di sessi, generi e orientamenti. Lo fa senza dare la sensazione di rispondere solo a una domanda di attualità e inclusione. Lo fa certo perché è giusto, ma anche perché avere personaggi con identità nel complesso molto diversificate li rende meno canonici, più imprevedibili; sicuramente più adatti a interpretare un mondo nuovo dove strutture sociali e rapporti personali vanno ripensati.
L’equilibrio tra le parti di racconto e quelle di gioco ha raggiunto un livello altissimo. Per cui, in un’esperienza che dà emozioni da ottovolante, da sparatoria, da romanzo di formazione, da tragedia greca, da commedia romantica, da horror, da documentario e non so cos’altro, ciascuna di queste parti è giocata, oltre che vista nelle sequenze cinematiche.
Dopo avere finito il gioco, essendo passati attraverso questo numero di spaventi, occhi lucidi, pianti e riflessioni, si ricordano non solo i personaggi e le loro storie, ma anche ore di gioco. Ore che trasudano qualità nel senso specifico di questo linguaggio (la progettazione dei livelli, gli ambienti, le dinamiche di gioco, le animazioni).
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