Conciliare il ruolo di madre ed una carriera sportiva è ancora molto complesso, specialmente in Italia. Alla fine del febbraio 2019, la Nike ha presentato lo spot Dream Crazier in cui vengono celebrate le atlete capaci di abbattere le barriere del pregiudizio grazie alla determinazione. Nello spot scorrono le immagini, con la voce di Serena Williams che – tornata sui campi dopo aver partorito – scandisce il messaggio: Quindi se ti vogliono chiamare pazza, va bene. Mostra loro cosa può fare una pazza.
Alysia Montaño, la mamma che corre
Nel 2014 Alysia è la mezzofondista di punta della nazionale statunitense, bronzo ai Mondiali dell’anno precedente negli 800m. Nel 2014 rimane incinta e la prima cosa che fa è informare la Nike, il suo sponsor, di voler comunque continuare a gareggiare e allenarsi fin quando le sarà fisicamente possibile. Da un lato cerca di abbattere i pregiudizi esistenti sullo sport e la maternità, dimostrando di poter correre come se nulla fosse, dall’altro è probabile che stia cercando di posticipare lo scontro con l’azienda americana che le costerà molto denaro. La Nike, infatti, le comunica immediatamente la decisione di mettere in pausa il contratto per tutto il tempo in cui non potrà gareggiare. A questo si aggiunge la minaccia del Comitato Olimpico Statunitense di toglierle l’assicurazione medica finché resterà in maternità. In un colpo solo, quindi, la Montaño perde non solo la sua entrata economica più importante, ma anche l’assistenza sanitaria. La sua decisione allora si concretizza in un preciso cambio di rotta, lascia Nike e passa ad Asics. Ai campionati nazionali gareggia all’ottavo mese di gravidanza, e termina il tracciato per ultima su 29 negli 800m. In pista iniziano a chiamarla “the running mother”. Il cambio di sponsor, tuttavia, non risolve il problema, solamente lo posticipa, dal momento che Asics la minaccia di rescindere il contratto se l’atleta non sarà in grado di partecipare ai campionati di atletica previsti 6 mesi dopo il parto. La Montaño quindi torna in pista, vince il titolo nazionale e si qualifica per i Mondiali.
La convivenza tra la carriera e il suo ruolo di mamma è molto dura, l’allattamento non può essere continuativo ed è costretta a correre con la pancia tenuta insieme da strisce di scotch medico. Deve accettare queste condizioni perché in America chi fa atletica leggera non ha uno stipendio vero e proprio, guadagna praticamente solo grazie agli sponsor, alle pubblicità e ai risultati. A questo, si aggiungono le clausole severe nei contratti, che impediscono di parlare apertamente delle condizioni imposte. Un circolo vizioso che rende impossibile ogni tipo di denuncia, e quindi ogni sorta di eventuale cambiamento, di un sistema economico e di trattamento che è evidentemente errato e scorretto. La sua vicenda resta nasconda fino a quando la Montaño non decide di rivolgersi al New York Times. È arrivato il momento di scoperchiare il vaso di pandora e davanti alle vicende di tante atlete come lei, è impossibile per le multinazionali sportive evitare di cospargersi il capo di cenere. Nel giro di poco tempo Brooks, Burton, Altra, Nuun e altri marchi di abbigliamento sportivo apportano delle modifiche decisive alla regolamentazione vigente in termini di maternità. A queste aziende, il 12 agosto 2019, si aggiunge anche Nike, che dichiara di aver messo in atto una policy per le atlete sponsorizzate che prevede uno stipendio e un bonus per diciotto mesi durante la maternità.
Madri e atlete
Come in ogni ambiente, ci sono delle eccezioni. Serena Williams è stata in grado di mostrare che un’atleta può avere una figlia, tornare a gareggiare con un fisico provato dalla maternità e comunque vincere. La tennista ha dimostrato al mondo quanto la maternità sia una bellissima fase anche per la vita di un’atleta, che non sia considerabile come una malattia. Non c’è un’atleta vincente prima e una madre a tempo pieno dopo, le due cose possono convivere.
Serena Williams è l’élite dello sport, e il supporto totale che Nike le ha dato prima, durante e dopo la sua maternità è un caso più unico che raro, dal momento che ad altre atlete è stato offerto un trattamento decisamente differente.
Il problema delle atlete incinta
Antonella Gonzalez, cestista di prima divisione in Argentina, durante un cambio in panchina tiene il figlio in grembo e lo allatta, fra un ingresso in campo e l’altro. La novità di quell’immagine postata sui social colpisce, ma ciò che colpisce ancora di più è la risposta dell’atleta: Mia madre faceva la stessa cosa, le è capitato di allattarmi a bordo campo. Per me e le mie sorelle è un gesto assolutamente normale, per questo mi stupisce vedere una simile ripercussione. Intendiamoci, mia figlia solitamente l’allatto prima di andare a giocare. Ma può capitare l’imprevisto. Stiamo sempre parlando di neonati. La cestista normalizza l’allattamento nello sport, anzi dichiara di essere cresciuta fin da piccola con un modello che le ha mostrato come non sia necessario compiere una scelta esclusiva. Ancora una volta, la Gonzales rappresenta un modello di donna che non ha messo da parte né l’agonismo né il desiderio di diventare madre.
La legge sul professionismo femminile in Italia
Il 13 settembre 2020 Carli Lloyd, pallavolista americana della squadra di Casalmaggiore, pubblica sul suo profilo Facebook una foto in cui tiene in mano un test di gravidanza positivo e una radiografia del feto. La gogna mediatica imperversa subito, e i commenti sono di una cattiveria incomprensibile. La Lloyd commenta così: È difficile essere atleta e avere paura di parlarne, provare vergogna, è una situazione molto strana. Ringrazio tutte le persone che mi sono vicine, soprattutto il Presidente. Il suo caso riapre una vecchia ferita dello sport femminile in Italia: la legge sul professionismo. Secondo la legge 91/1981 nessuna donna che pratica sport nel nostro Paese è una professionista. Il che comporta anche il fatto che tutti i diritti e le tutele legate allo status di lavoratrice previste dalla Costituzione per le donne, nello sport non esistano, a meno che un’atleta non faccia parte di un corpo dell’arma. Il “contratto” stipulato – se così possiamo davvero definirlo – altro non è che un semplice accordo fra le parti. Ad aggravare la situazione ci si mette anche il fatto che in queste scritture private sono comuni le cosiddette “clausole anti-mamma”: per le atlete è severamente vietato restare incita, pena l’esclusone dalla società.
Una condizione quasi totalmente taciuta, almeno fino a poco tempo fa. Il 7 marzo 2021, la pallavolista Lara Lugli racconta sul suo profilo Facebook la controversia legale in corso con la sua ex squadra. La Lugli era rimasta incinta, aveva prontamente informato la società e il famoso “contratto” con il Pordenone Volley era stato interrotto in maniera immediata. Chiede di essere retribuita anche per il mese di febbraio, l’ultimo della sua carriera a Pordenone in cui si era allenata regolarmente e aveva preso parte alle partite di campionato, adempiendo pienamente ai suoi doveri, invano. Che Lara Lugli avesse firmato un contratto avendo in piano di avere un figlio nella stessa stagione sportiva è ovviamente un’illazione da parte della società.
Il suo caso è la conferma che il pensiero comune, anche delle società sportive, è che le donne debbano fare sport per divertimento, non di lavoro. Ci hanno detto per anni di studiare, di laurearci, di trovarci un lavoro ben retribuito, di mantenere relazioni stabili con un fidanzato e infine, solo dopo aver fatto tutti questi “compiti”, ci hanno dato il permesso di avere un bambino. Molte donne hanno inseguito con rigore un tale cursus honorum e ora hanno scollinato da un po’ la soglia dei 30, consapevoli del fatto che prendere una pausa per avere un figlio significherebbe abbassare il sipario proprio nel momento in cui siamo arrivate a essere dove volevamo arrivare. È un percorso condiviso da milioni di donne, che si aggrava se declinato nella dimensione dello sport dove, una volta uscite, rientrare sembra impossibile.
Il passaggio al professionismo per lo sport femminile in Italia è ancora oggi un’utopia. Solamente la Federcalcio al momento si è mossa in questo senso (dalla stagione 2022/23 le calciatrici di A diventeranno professioniste), tuttavia ha potuto sfruttare l’improvvisa crescita del movimento e un apparato economico che non ha eguali in Italia. Finché il passaggio al professionismo rimarrà materia di decisione per le singole Federazioni, il pericolo di rimanere in balia degli umori delle società terrà le sportive in scacco, rendendo vana l’idea che ogni atleta sia libera. Queste storie ci dimostrano come ogni donna sia padrona della sua narrazione. Sarebbe auspicabile che non ci fosse alcun prezzo da pagare per questo.
Costanza Falco
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