L’Italia è poco digitale.
Il mondo va in una direzione, l’Italia in quella opposta. Questo è il sunto della classifica DESI 2020. DESI è un acronimo che sta per indice di digitalizzazione dell’economia e della società e viene pubblicato ogni anno dalla Commissione Europea. Il nostro Paese, da sempre tra le ultime classificate, quest’anno ha addirittura perso posizioni e ora è 25esima su 28. Peggio di noi solo Romania, Grecia e Bulgaria.
Un risultato davvero destabilizzante nell’epoca e nel periodo storico che stiamo vivendo, fatto di digitalizzazione anche forzata (vedasi smart working, videocall e tracciamento). A proposito, l’app Immuni, lanciata dal Governo con l’obiettivo di favorire la quotidianità dei cittadini attraverso sistemi di registrazione e tracciamento, è stata un flop: scaricata da pochi, usata da nessuno. Vero, siamo un Paese vecchio, con un’età media altissima (secondi solo al Giappone) e di certo non aiuta nello sviluppo tecnologico. Ma lascia un po’ interdetti il silenzio delle istituzioni. Il totale disinteresse nei confronti di un argomento invece attualissimo e che dovrebbe avere un posto al tavolo delle questioni importanti da affrontare.
Le cause di questo passo indietro
Siamo scarsi in digitalizzazione delle imprese, uso dei servizi pubblici digitali, formazione del capitale umano e all’ultimo posto per competenze digitali. Nessuno ha ritenuto di aprire un dibattito sul fatto che l’uso dei servizi digitali della Pubblica amministrazione, che ovunque è aumentato parecchio, da noi è addirittura calato. O si è soffermato sul numero esorbitante di aziende che ancora non fanno e-commerce e non sanno cosa è il cloud e poi si chiedono perché hanno smesso da almeno tre lustri di essere competitive. Oppure si è scandalizzato per l’ultimo posto assoluto nel capitolo “capitale umano”, quello che misura le competenze digitali dei cittadini: quanto usiamo Internet e come. Poco e male. In realtà siamo forti sulle videochiamate, già prima della quarantena eravamo dei fenomeni pare, ma sul resto, gli ultimi.
Il ritardo italiano non nasce oggi, è cronico ma ci sono due novità. La prima è che non stiamo più rimontando, anzi, gli altri Paesi corrono più di noi. La seconda novità è la quarantena che ha fatto capire a tutti quanto Internet sia importante per la resilienza di un Paese. La capacità di adattarsi e resistere trovando soluzioni imprevedibili. Senza la Rete quei mesi chiusi in casa sarebbero stati molto più duri, il lavoro si sarebbe fermato ovunque, l’anno scolastico sarebbe stato annullato e noi avremmo sentito parenti e amici solo al telefono.
Possibili soluzioni
Oggi la consapevolezza, quella che gli economisti chiamano “la domanda di Internet” e che storicamente è stato l’alibi per rallentare sulla diffusione della banda larga, esiste. Va costruita una offerta: va fatto un piano e va realizzato in fretta. Il momento è adesso. Dall’Unione Europea stanno arrivando moltissimi soldi: quasi dieci volte di più di quelli del famoso Piano Marshall che servì alla ricostruzione dopo la guerra.
Vanno usati portare l’Italia nel futuro: occorre completare la rete a banda ultralarga, partendo dall’incoraggiante terzo posto ottenuto nell’ambito dello sviluppo del 5G. Ma servono anche imprese capaci di usare il digitale per recuperare produttività, servizi pubblici che facciano lo stesso per migliorare efficienza e trasparenza e soprattutto cittadini con le competenze necessarie per far tutto con uno smartphone volendo. Inoltre, per non lasciare indietro nessuno, è più che mai importante valorizzare l’accessibilità, che renderebbe molto più fruibili molti servizi pubblici della pubblica amministrazione.
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