Un supporto psicologico contro il coronavirus.
I medici, gli infermieri, gli operatori sanitari. Sono loro i protagonisti positivi dell’emergenza coronavirus. Costantemente in prima linea, facendo anche più del dovuto per aiutare i propri pazienti nella lotta quotidiana al Covid-19, esponendosi loro stessi al virus con tutti i rischi del caso. Orari lunghi e pesanti, ospedali gremiti molto più del solito e una malattia. E purtroppo non ha ancora vaccino possono minare la condizione mentale dei dottori, oberati e spesso inermi di fronte a questo nuovo nemico.
Anche chi ci aiuta ha bisogno di aiuto. Ecco perchè quello che fanno Carlotta Ghidoni e il team di psicologi VIDAS è tanto difficile quanto importante. L’associazione infatti ha attivato il servizio “Distanti ma non soli”. Un’iniziativa a sostegno di tutto il personale sanitario, professionisti della salute e congiunti. Ogni giorno affrontano telefonicamente i casi di burnout, lo stress emotivo a cui vanno incontro medici e operatori sanitari impegnati sul fronte del Coronavirus. Cercano un modo per alleviare il carico emotivo accumulato, settimana dopo settimana, durante la difficile gestione dei malati dentro gli ospedali.
Un doppio nemico
«L’emergenza Covid-19 ha portato alla creazione di questo servizio perché gli operatori sanitari si trovano a dover affrontare, oltre alla situazione sanitaria, anche un forte carico di stress psicologico», spiega la dottoressa Ghidoni. «Da quando è scoppiata l’epidemia in Italia, hanno a che fare con un carico di lavoro assolutamente improvviso e che occupa sia la vita professionale sia quella privata. Sono “immersi” nell’emergenza, ma attraverso questo servizio di supporto telefonico possono avere uno spazio di decompressione. La telefonata diventa utile per “scaricare” il peso di ciò che si sta vivendo, offre un confronto sulle problematiche emotive più difficili e qualche consiglio per gestirle».
Una pressione psicologica forte e anche inedita. Perché «oggi il personale medico e infermieristico deve far fronte a un’emergenza di cui non si conosce l’entità, è chiamato a sostenere il peso di un’incertezza e l’imprevedibilità di un lavoro collegato a una malattia sconosciuta che ancora non si comprende bene».
«Il loro livello di stress è “diverso”– continua la Ghidoni-. Il fatto di avere una grandissima responsabilità di cura poiché, per il Covid-19, non vi sono farmaci specifici. La sopravvivenza e la guarigione di un paziente dipende in moltissimi casi dal lavoro del personale sanitario. A questo si aggiunge il fatto che la vita privata e professionale si intrecciano e c’è sempre molta paura di essere veicolo di contagio. Molti di coloro che chiamano sanno che il loro ruolo li espone fortemente al rischio di contrarre e al tempo stesso trasmettere il virus alla propria famiglia».
Una sfida complicata
E c’è anche un altro aspetto che incide fortemente sull’emotività di questi professionisti: «È il fatto di ritrovarsi a dover gestire da soli i pazienti in fin di vita, senza la presenza dei parenti di cui peraltro rappresentano l’unico tramite con il loro congiunto».
Anche la paura è un altro tema molto forte su cui il team di supporto psicologico è chiamato a lavorare. «Diamo la possibilità di dar voce alla paura, perché in questo momento è un rumore di sottofondo per tutti. Paura di contagiare, di essere contagiati, di morire, di morire soli… Esprimere questa emozione è molto importante, perché gestirla è ciò che siamo chiamati a fare ogni giorno». Tutto questo carico di stress può portare a un livello di malessere che si traduce, in molti casi, nella comparsa di sintomi specifici.
Un sostegno necessario
«La mancanza di sonno o una certa agitazione notturna sono molto frequenti in questi casi, così come l’irritabilità anche di fronte a piccole questioni», spiega la psicologa. «A volte si cede invece a un lieve uso di alcolici, nell’idea che bere un po’ di più aiuti a rilassarsi».
Non sempre è facile rendersene conto. «Mi capita di ricevere telefonate da parte di parenti o persone vicine agli operatori sanitari che chiedono aiuto poiché i diretti interessati faticano a rendersi conto del loro livello di stress», racconta. «Quando si è così immersi nel lavoro, sarebbe importante fermarsi di tanto in tanto e poiché l’emergenza in questione catalizza totalmente l’attenzione. Non si riesce a rispettare quel tempo fisiologico di cui si ha bisogno per gestire le emozioni più forti. Per questo diventa importante che ci sia un ascolto, un confronto che aiuti ad allentare la tensione».
«Mi colpisce particolarmente quando chiamano con l’idea di essere in grado di gestire la situazione, una convinzione dettata da un senso di responsabilità molto forte. Quando succede che si parli apertamente del proprio malessere – conclude la dottoressa – diventa pertanto un atto di coraggio. Quello che, poi, mi fa pensare che il supporto sta funzionando è la percezione di un’apertura verso queste telefonate. Un senso di fiducia da parte della persona, un suo sentirsi “alleggerita da un peso”. Come tutto ciò si tradurrà poi nella quotidianità, saranno le sue giornate a dirlo».
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