In tempi di quarantena, si è parlato spessissimo di argomenti che ormai fanno parte del quotidiano: distanziamento sociale, mascherine, decreti. E smart working. In particolare quest’ultima novità, scoperta per necessità ma diventata presto virtù, è ora una certezza per migliaia di lavoratori, che ne chiedono a gran voce la riconferma anche post pandemia. Una pratica che, al netto di difetti dipendenti dalla natura della propria professione o dalle proprie disponibilità, sembra costituire davvero il futuro prossimo del lavoro. Meno ufficio e più remoto. Ma è tutto oro quel che luccica?
La ricerca di Wired e Rete Clima
La risposta sembrerebbe essere no. Secondo uno studio condotto dalla rivista scientifica Wired, in collaborazione con l’ente no-profit Rete Clima, il lavoro a distanza sarebbe poco sostenibile dal punto di vista ambientale e rischierebbe di tramutarsi in una sorta di bomba ecologica.
“Da una ricerca in letteratura tecnica abbiamo identificato i costi energetici e ambientali legati alla trasmissione dei dati tramite le infrastrutture web. A livello globale, in media, ogni Gb trasferito consuma 0,06 kWh pari, in Italia, ad una emissione di 21,3 grammi di CO2 in atmosfera” spiega Paolo Viganò, Carbon e Csr Manager della ong. I server necessari a processare le informazioni e a trasferirle e gli impianti di raffreddamento necessari per garantire il funzionamento delle infrastrutture sono solo alcuni dei fattori che concorrono a comporre la cifra. A questi valori si aggiungono, dal lato utente, i consumi dell’hardware domestico, dalle schede grafiche potenziate alle Cpu da gaming. Certo, va considerato che chi lavora da casa si risparmia per esempio il viaggio in macchina ed evita quindi di inquinare con le emissioni. Ma come vedremo più avanti non si tratta di un’equa compensazione.
Sotto controllo
Dopo tre mesi di osservazioni, la risposta alla domanda iniziale è che il temuto impatto del lavoro da remoto sull’ambiente non c’è stato. La conferma arriva da Fastweb, Tim e Vodafone, che Wired ha contattato nelle scorse settimane. Quello che conta davvero sono le applicazioni sociali e l’entertainment. Dalle videocall agli aperitivi virtuali, dai film in streaming agli incontri di calcio rivisti per passare il tempo. Fare un po’ di chiarezza può aiutare. Se appare ormai chiaro che le nuove modalità operative aiutano la decarbonizzazione del lavoro, è evidente, però, che non si tratta di soluzioni a emissioni zero.
“La quarantena ha mostrato abbastanza chiaramente che un’economia con più smart working sarebbe preferibile, dal punto vista ambientale, a un sistema basato esclusivamente sulla mobilità” riprende Viganò. Tuttavia con una rapida indagine sulle abitudini durante il lockdown si scopre che, se in una giornata lavorativa tipo (e rispetto alla sola trasmissione dei dati) un lavoratore in ufficio consuma circa 1 g di CO2 (corrispondenti a circa 50 megabyte di traffico web), il collega in smart working consuma circa 2 g di CO2 (l’equivalente di circa 110 megabyte).
Il problema delle videochiamate, di lavoro e (soprattutto) scolastiche
La differenza è dovuta alle videochiamate. Assenti in ufficio per ovvie ragioni di prossimità, in realtà richiedono poco tempo anche quando si resta a casa. Per arrivare al risultato, abbiamo considerato la routine di un impiegato medio (escludendo le figure commerciali, che fanno storia a sé data la necessità di interfacciarsi costantemente con i clienti). Due videocall di coordinamento su Skype da 20 minuti l’una, con 5 partecipanti e in qualità media, una all’inizio e una alla fine della giornata.
Ma a impattare maggiormente sull’ambiente, più che i lavoratori, sembra siano gli studenti. O meglio, le lezioni in streaming, che sono diventate una necessità. Un’ora di connessione di gruppo su Zoom in media qualità costerebbe, secondo i calcoli, 810 megabyte di traffico dati, pari a circa 17 grammi di anidride carbonica. Questo numero va, ovviamente, moltiplicato per le ore di lezione di tutte le classi italiane. E non è finita. Dopo i compiti, i ragazzi (e non solo) accendono computer e console, tantopiù in quarantena, quando uscire era vietato. Oggi si gioca sempre più spesso online: per esempio, solo l’ultimo aggiornamento di Fortnite – scaricato da migliaia di teenager e non solo – pesava la bellezza 25 gigabyte (cioè oltre mezzo chilo di CO2). Abbastanza per creare qualche problema alla rete a inizio marzo.
Sempre più connessi
La pandemia ha solo accentuato una tendenza già in atto. Secondo i dati di Google, il gaming pre-Covid consumava mediamente circa 75 miliardi di kilowattora all’anno, più o meno come 25 centrali elettriche standard (cioè da 500 megawatt). Essere gamer performanti richiede schede grafiche e hardware avanzati. Inoltre, se un pc utilizzato esclusivamente per la navigazione in Internet viaggia a circa l’1% della propria capacità di calcolo, durante le sessioni di gioco le macchine lavorano, invece, spesso al massimo dei giri. Anche in questo caso, i consumi aumentano con la modalità multiplayer.
Chi con i videogiochi ha smesso (o non ha mai cominciato) non è al riparo. Sotto la lente di ingrandimento c’è anche il video streaming. In un’intervista a Italia Oggi rilasciata a inizio marzo, l’ad di Chili Giorgio Tacchia dichiarava che l’utilizzo del servizio era raddoppiato rispetto al periodo pre-coronavirus. Netflix, contattata da Wired, ha preferito non rilasciare dichiarazioni al riguardo. Ma basta una rapida indagine tra amici e parenti per capire se (e quanto) i consumi sono cresciuti. E poi c’è, naturalmente, il porno, che già in tempi normali costituiva il 27% del traffico video totale: secondo le statistiche fornite da PornHub, durante la pandemia il consumo è aumentato in media di circa il 15% a livello mondiale. Il futuro, ormai è chiaro, è sempre più visivo.
La ricerca
Una ricerca pubblicata dal The Shift Project prima dell’epidemia calcolava che, entro il 2022, l’80% del traffico dati sulle reti sarà dovuto ai video online. Non solo: di questo passo, prosegue lo studio, il digitale potrebbe contare il 7% delle emissioni mondiali di anidride carbonica entro il 2025: più o meno quanto tutte le automobili in circolazione oggi. E se aumentano gli utenti, aumenta anche, nel contempo, la qualità dei contenuti. Dieci ore ad alta definizione, spiegano gli esperti, significano più dati di tutti gli articoli di Wikipedia in inglese in formato testuale.
E, secondo una ricerca di Cisco, un’ora di streaming a settimana consuma, nell’arco di un anno, la stessa quantità di energia di due frigoriferi lasciati accesi nello stesso lasso di tempo.
Lo streaming video nel 2018 ha generato 300 milioni di tonnellate di CO2, una quantità vicina a quella prodotta dall’intera Spagna, mentre i servizi on demand (come Netflix e Amazon Prime) hanno prodotto 100 milioni di tonnellate di CO2, l’equivalente dell’intero Cile. E dal computo sono escluse videoconfererenze e applicazioni ultra-innovative, come la telemedicina, sempre più diffuse.
Possibili soluzioni
Nel mare di dati, l’unica soluzione per non navigare verso un altro iceberg ecologico – sostiene il think tank francese – è provare a diventare “digitalmente sobri”, espressione che, in maniera probabilmente non casuale, riconduce all’abuso di alcol. Un concetto reso efficacemente col il termine inglese over consumption, sovra consumo. Più facile a dirsi che a farsi, perché l’impalpabilità dei costi ambientali per l’uomo comune, il non addetto ai lavori, rappresenta l’ostacolo più grande nel tentativo di limitarsi. Come fare? In realtà, è il suggerimento, esistono azioni che, una volta diventate abituali, possono fare la differenza.
E se i consumatori possono diminuire l’impatto ambientale riducendo le ore di video streaming e usando i servizi alla minima risoluzione disponibile, il report ha qualche richiesta anche per i giganti del web. Disattivare la modalità autoplay, ad esempio, e consentire l’ascolto di musica anche senza immagini per contribuire a ridurre le emissioni. Per rendere chiaro l’impatto agli scettici, un video esplicativo e un’estensione per Firefox aiutano a visualizzarlo. Un quadro allarmante, insomma, soprattutto in prospettiva. Forse, dopo la sbornia digitale, è arrivato il momento dell’hangover? Nonostante tutto, Viganò non ne è convinto. “Il mondo digitale – chiosa – permette sicuramente una importante riduzione delle emissioni di gas serra in relazione alla dematerializzazione dell’informazione, alla riduzione della mobilità e altri aspetti”. L’importante, come sempre, “è non abusarne”.
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